Carlo dell'Amico
Carlo Dell’Amico (Perugia, 1954) nelle sue opere dagli anni ’70 e ’80 ha affrontato un’immagine del tempo perduta e che sfugge alla storia, come un rituale ripetuto ha narrato la successione degli eventi e dell’abbandono, lavorando sulla memoria e il suo muto dialogo con la realtà contemporanea. Nella progressione del lavoro di questo periodo, soggetto a continui rimandi a i misteri della morte, emergono la funzione traslativa fra le contrapposte realtà dell’esperienza e le forme geometriche delle architetture ipogee articolate tra conoscenza simbolica e le rovine di un mondo archeologico. La sua continua metamorfosi non lascia spazi vuoti sui diversi piani in cui agisce anche attraverso l’uso consapevole di molti mezzi espressivi.
Dal 1995 al 2000 il tema dello smembramento del corpo e del suo mito universale, principio di rinnovamento e rinascita e come interpretazione mitopoietica, viene trattato dall’artista allusivamente attraverso la frammentazione di immagini prodotte dalla multimedialità, una particolare riflessione sulla natura delle cose e dell’uomo tra finitudine e instabilità che apre nuovi capitoli all’interno del suo lavoro con l’apporto di elaborazioni tecnologiche. Questa ulteriore scansione ritmica riassume sempre le esperienze precedenti, oltre il sistema dei segni e manifesta progressivamente il particolare interesse per l’aspetto simbolico che trascende la narrazione oltre la cosa, in taluni casi performativi.
Sottintendendo l’esperienza della vita nella sua vastità attraverso il suo perpetuo cambiamento, tra il 2005 e il 2007 Carlo Dell’Amico, utilizzando fotografie zenitali di varie metropoli alcune tratte da Google maps o scatti aerei, seleziona tra queste la città di Roma in un particolare momento della sua storia come paradigma di una estetica della rovina e della meraviglia. L’artista interviene su queste istantanee modificando il tessuto urbano, trasformando in forme scheletriche architetture industriali desolate, abbandonate o rese inabilitabili. Queste opere, per la maggior parte realizzate con un processo di carte sbalzate a rilievo, restituiscono in successione quella realtà trasformata in resti di antiche civiltà dando luogo ad una memoria presente e futura che riemerge come una scrittura non alfabetica e non decifrabile disposta a formare una stratificazione, in un continuum temporale. L’allusione alchemica, nelle opere del 2005, è ulteriormente sottolineata dalla presenza come crescita organica sulla pianta della città di radici annerite. Due le mostre significative di quegli anni sulle città da contemplare: una alle Scuderie Aldobrandini Straniati Reperti ( 2006) in cui le grandi mappe venivano attraversate da frasi proiettate ed interagivano con i reperti archeologici del mito bacchico dionisiaco; la seconda, Città Trafitta ( 2006) al Museo Laboratorio della Sapienza di Roma, nella quale le grandi superfici bianche delle città, ricoperte di geometrie di stelle nere, diventavano sfondo scenico per l’happening di un attore-mimo cui l’artista aveva affidato la propria partecipazione coinvolgendo il solo pubblico femminile, consegnando a gesti e segni un rituale in nove parti, per la comprensione di una magia che non sempre risiede nelle parole.